I BAMBOCCIONI



Bamboccioni, per quanto molti possano ritenere il contrario, non è uno dei tanti neologismi a cui i nostri politici ci hanno abituato, ma un termine esistente da alcuni secoli, per quanto poco usato nei tempi moderni. Fu Tommaso Padoa Schioppa (1940-2010), nell’ottobre del 2007, a dargli nuova vita reinserendolo con forza nella parlata corrente. All’epoca, Padoa Schioppa era il ministro delle Finanze del governo Prodi e, nel corso di un’audizione davanti alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato, ebbe a dire: “Mandiamo i bamboccioni fuori di casa. Incentiviamo a uscire di casa i giovani che restano con i genitori, non si sposano e non diventano autonomi. È un’idea importante“. Il ministro, molto probabilmente, non aveva alcun intento polemico, ma fu sommerso da una valanga di critiche, peraltro bipartisan; il commento più “buono” fu di Walter Veltroni che parlò di “battuta infelice“. L’allora capogruppo dei Verdi-Pdci al Senato, Manuela Palermi, non gradì molto l’uscita del ministro e dichiarò: “Quando il ministro sarà riuscito a trasformare l’Italia in un Paese dove le banche concedono mutui anche ai lavoratori precari e dove gli stessi lavoratori precari possano, nonostante l’esibizione di buste paga che danno poche certezze, rateizzare gli acquisti, allora forse cercheremo di capire se dietro quel suo bamboccioni ci sia una fine analisi sociologica. Oggi è solo un infelice epiteto che può sicuramente guadagnargli la simpatia di qualche pasciuto e arrivato editorialista. Per il resto, auguri“.

Lo scalpore suscitato dal termine fu enorme, tant’è che persino uno scrittore di notevole fama come Umberto Eco se ne interessò, tra l’altro citando alcuni usi classici del termine riportando una citazione del Tommaseo-Rigutini: “se dico bamboccione non penserò tanto alla mole, quanto alla forma badiale… difficile immaginare un bamboccione senza un bel visone lustro“,  e una di Baldini: “ora tutti si trovano a far la vita comoda, lei, Bertoldino, la nuora Meneghina, e quel caro bamboccione di Cacasenno“.

Anche Lucia Annunziata, giornalista di una certa fama, ebbe a dire: “L’etimo della parola bamboccio, di cui bamboccione è la forma accrescitiva, reca con sé il marchio dell’infanzia e dunque della indifesa sprovvedutezza: bambo (forma toscana) e bambino sono alla radice di bamboccio e bamboccione. La parola bamboccio piacque ai francesi, che, nel secolo XVII, la trassero a loro nella forma bamboche, per significare marionetta. Ingenue marionette torpide, questi bamboccioni; e pure paffutelli, perché restando in casa non ci si può sottrarre alla dieta ingrassante di mammà“.

Un altro politico che ha usato il termine “bamboccioni” è stato Renato Brunetta. Era il gennaio del 2010 e l’allora Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione rilasciò un’intervista a RTL (prendendo spunto da una sentenza del tribunale di Bergamo che aveva condannato un artigiano a pagare gli alimenti alla figlia di 32 anni che era fuori corso all’università da otto anni) nella quale proponeva di fare una legge per far uscire di casa i ragazzi a 18 anni. Come nel caso del compianto Padoa Schioppa (che peraltro Brunetta citò), non mancarono le critiche da entrambi gli schieramenti politici (Roberto Calderoli, con l’eleganza verbale che lo ha sempre contraddistinto, rimproverò abbastanza aspramente il suo collega di governo dicendo: “l’ha fatta fuori dal vaso“).

Bamboccioni per necessità. Ma anche per scelta. Due giovani italiani su tre vivono ancora con mamma e papà. Gli italiani, si sa, sono sempre stati dei “mammoni”. È questa l’idea che gli europei hanno dei giovani italici. Luoghi comuni? A quanto pare dai dati Eurostat, no. Colpa della crisi, certamente. Il precariato e la disoccupazione stanno alimentando questa situazione. Ma c’è anche un aspetto culturale che troppo spesso viene dimenticato. La famiglia in Italia è ancora un’istituzione che, nonostante la crescita dei divorzi, non ha perso la sua centralità. E ha svolto un ruolo fondamentale durante questa crisi, rappresentando un sistema di welfare importante nel sostituirsi ad uno Stato incapace di sostenere i più giovani.



Dopo l’università, un giovane su due con mammà. Secondo i dati Eurostat, due terzi dei ragazzi italiani tra i 18 e i 34 anni, vivono ancora con i genitori. In Francia e Gran Bretagna sono esattamente la metà. Appena più alto il livello in Germania dove i “mammoni” sono circa il 40%. Nulla a che vedere con la Danimarca, dove tra i 18 e i 34 anni solo il 15% dei giovani vive nella famiglia di origine. Preoccupanti sono anche i dati relativi alla fascia più alta, cioè tra i ragazzi non più giovanissimi che si presume abbiano terminato gli studi universitari e si siano proiettati nel mondo del lavoro. Tra i 25 e i 34 anni, un ragazzo su due vive ancora con i genitori. Peggio degli italiani solo i greci (duramente colpiti da una crisi senza precedenti), i bulgari e gli slovacchi

Incapaci di crescere, di assumersi responsabilità, di conquistarsi l'autonomia. I giovani che fino a ieri erano simbolo del futuro, del progresso, del domani che è già qui. Motore dell'economia: consumo e consumatori. Sono passati di moda, molto in fretta.

Sulla scia di Padoa-Schioppa, altri "professori" e altri "tecnici di governo" li hanno presi di punta. Un vice-ministro ha definito "sfigati" gli studenti  -  o sedicenti tali  -  che, a 28 anni, non si sono ancora laureati. Mentre il Presidente del Consiglio ha affermato che i giovani devono scordarsi il lavoro fisso a vita. Perché, fra l'altro, è "monotono". E la ministra Cancellieri ha recriminato sui giovani che pretendono "il posto fisso nella stessa città, vicino a mamma e papà".

Tuttavia, non è chiaro di cosa siano, davvero, responsabili. Di quali colpe si siano macchiati. A guardare dati e statistiche, a leggere le loro storie, molte "accuse" nei loro riguardi appaiono, francamente, prive di fondamento.

I giovani devono scordarsi la monotonia del posto fisso, si dice. E il 30% dei giovani, in effetti, vorrebbe un lavoro sicuro. Ciò significa, però, che il rimanente 70% antepone altri requisiti. Non ritiene il lavoro fisso una priorità. Peraltro il 65% dei giovani occupati considera il proprio lavoro "precario" oppure "temporaneo". E il 60% pensa che, fra uno-due anni, avrà cambiato lavoro.

D'altronde, il "posto fisso", per loro, di fatto non esiste. Anzi, per molti giovani, non esiste neppure il lavoro. L'Istat ha stimato il tasso di disoccupazione giovanile oltre il 30%. Il più alto dell'Eurozona. (Ma è molto più elevato tra le donne e sale al 50% nel Mezzogiorno).

Le statistiche ufficiali, inoltre, valutano il peso dei lavoratori atipici e irregolari oltre il 30% tra i giovani (e intorno al 15% nella popolazione). Ma il fenomeno più significativo è riassunto dai "Neet" (acronimo della definizione inglese: Not in Education, Employment or Training). Quelli che "non" lavorano e "non" studiano. Sono oltre 2 milioni e 200 mila. Sospesi. Sulla soglia, fra studio e lavoro. Senza riuscire a entrare né di qua né di là.

Difficile considerarli "partigiani del posto fisso". Visto che di fisso hanno solo la precarietà. Ma anche l'indisponibilità a lasciare la famiglia e la casa di origine mi pare una leggenda.

Tutti quelli che possono, durante il percorso universitario, se ne vanno lontano. Svolgono un periodo di studi (utilizzando il programma Erasmus) in Università straniere. Svolgono stages, dottorati, corsi di formazione e perfezionamento in diverse città italiane, europee. Americane. D'altronde, 6 persone su 10 ritengono, ragionevolmente, che per ottenere un lavoro adeguato alle proprie competenze e per fare carriera, i giovani debbano andarsene dall'Italia.

Difficile trattare da "bamboccioni" i giovani italiani che, al contrario, si sono ormai abituati a una vita da precari, al lavoro "temporaneo". Ma proprio per questo utilizzano la famiglia e la casa di famiglia come una risorsa. Un salvagente. Una stazione di passaggio.

Peraltro, non è facile staccare i giovani da casa, allontanarli dalla famiglia, in un Paese "immobiliare" come il nostro. Dove quasi 8 famiglie su 10 hanno la casa in proprietà. E il 20% ne ha almeno due. Dove il mercato degli affitti è limitato e caro. Basti pensare al costo di un posto letto per gli studenti universitari.

Per questo non è chiaro perché a "liberare" l'Italia dal peso del passato debbano essere proprio loro. I giovani. Quegli "sfigati".

Come se la società e il mercato del lavoro fossero davvero "aperti", regolati dal merito. Non è così. Lo dimostrano molte ricerche. Dalle quali emerge che, secondo 7 italiani su 10, le diseguaglianze sociali dipendono, soprattutto, dalla famiglia e dalle amicizie. D'altronde, lo pensano anche gli imprenditori, cioè, i "datori" di lavoro che per primi, tendono a riprodursi per via familiare. (Come le "classi dirigenti", d'altronde: professori universitari, giornalisti, politici, liberi professionisti....).

Perché prendersela con i giovani, "questi" giovani? In via di estinzione, dal punto di vista demografico. Perché non hanno futuro: 8 persone su 10 si dicono certe che i giovani non miglioreranno la posizione sociale dei loro genitori. Ancora: il 50% dei giovani (ma di più, tra gli studenti universitari) pensa che sia necessario stipulare un'assicurazione integrativa, perché non disporrà mai di una pensione.

Forse, il motivo di tanto accanimento è proprio questo. Perché se il mercato del lavoro è chiuso, il debito pubblico devastante, il sistema pensionistico in fallimento, il futuro dei giovani un buco nero, non è per colpa loro, ma delle generazioni precedenti. Dei loro padri e dei loro nonni.



Attualmente il termine bamboccioni rappresenta tutti coloro che non hanno ancora finito gli studi o, avendoli conclusi, si fanno ancora mantenere dai genitori perché non hanno trovato lavoro.

Con questo significato alcuni politici hanno cercato di spronare i giovani a terminare gli studi e a uscire dalla famiglia. Esistono termini più o meno equivalenti, come mammoni.

Per il Well-being il bamboccione è un soggetto che potenzialmente ha due personalità critiche: quella dell’insufficiente e quella dell’inibito.

Come tale, la definizione usuale è molto poco precisa perché non descrive che una parte di un insieme più vasto.

Sono infatti bamboccioni tutti coloro che continuano a dipendere dai genitori:

per inibizioni personali (sono inibiti, non hanno elaborato il distacco dai genitori)
per convenienza (e allora sono insufficienti per scelta)
per incapacità personale (e allora sono insufficienti per debolezza).
Il primo caso è quello del mammone, mentre gli ultimi due sono quelli con cui tipicamente si fa riferimento al bamboccione. Il secondo caso è quello di chi, avendone le capacità, potrebbe rendersi autonomo, ma non lo fa, mentre il terzo è quello di chi è incapace di risolvere la sua situazione senza i genitori (e magari si incaponisce a studiare ingegneria o medicina quando potrebbe trovarsi un lavoro più alla sua portata)..




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