FRATELLI D'ITALIA
Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta;
dell'elmo di Scipio s'è cinta la testa.
Dov'è la vittoria? Le porga la chioma
ché schiava di Roma Iddio la creò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.
Noi siamo da secoli calpesti, derisi
perché non siam popolo, perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.
Uniamoci, amiamoci; l'unione e l'amore
rivelano ai popoli le vie del Signore.
Giuriamo far libero il suolo natio
uniti, per Dio, chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò
Dall'Alpe a Sicilia dovunque è Legnano;
ogn’uom di Ferruccio ha il core e la mano;
I bimbi d'Italia si chiaman Balilla;
il suon d'ogni squilla i Vespri suonò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.
Son giunchi che piegano le spade vendute;
già l’aquila d’Austria le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia e il sangue Polacco
bevè col Cosacco, ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.
Sulla data precisa della stesura del testo, le fonti sono discordi: secondo alcuni studiosi l'inno fu scritto da Mameli il 10 settembre 1847, mentre secondo altri la data di nascita del componimento fu due giorni prima, l'8 settembre. Tra i sostenitori della seconda ipotesi ci fu Giosuè Carducci, che riassunse così il contesto storico in cui nacque il Canto degli Italiani:
«Fu composto l'otto settembre del quarantasette, all'occasione di un primo moto di Genova per le riforme e la guardia civica; e fu ben presto l'inno d'Italia, l'inno dell'unione e dell'indipendenza, che risonò per tutte le terre e in tutti i campi di battaglia della penisola nel 1848 e 1849 »
(Giosuè Carducci)
Dopo aver scartato l'idea di adattarlo a musiche già esistenti, il 10 novembre 1847 Goffredo Mameli inviò il testo dell'inno a Torino per farlo musicare dal maestro genovese Michele Novaro, che in quel momento si trovava nella casa del patriota Lorenzo Valerio. Novaro ne fu subito conquistato e, il 24 novembre 1847, decise di musicarlo. Così Anton Giulio Barrili, patriota e poeta, ricordò nell'aprile 1875, durante una commemorazione di Mameli, le parole di Novaro sulla nascita della musica del Canto degli Italiani:
«Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all'inno, mettendo giù frasi melodiche, l'un sull'altra, ma lungi le mille miglia dall'idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai scontento di me; mi trattenni ancora un po' in casa Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente. Vidi che non c'era rimedio, presi congedo e corsi a casa. Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte. Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su d'un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e, per conseguenza, anche sul povero foglio; fu questo l'originale dell'inno Fratelli d'Italia»
(Michele Novaro)
Mameli, che era repubblicano, giacobino e sostenitore del motto nato dalla Rivoluzione francese Liberté, Égalité, Fraternité, per scrivere il testo del Canto degli Italiani si ispirò all'inno nazionale francese, La Marsigliese. Ad esempio, «Stringiamci a coorte» richiama il verso della Marsigliese, «Formez vos bataillon» ("Formate i vostri battaglioni").
Anche l'inno nazionale greco, che fu composto nel 1823, fu uno dei brani a cui si ispirò Mameli per il suo canto: in entrambi i componimenti sono infatti contenuti dei riferimenti all'antichità classica, che è vista come esempio da seguire per affrancarsi dal dominio straniero, e dei richiami alla combattività, che è necessaria per poter ambire alla riconquista della libertà. Nell'inno nazionale greco è presente, come nel Canto degli Italiani, una menzione all'Impero austriaco e al suo dominio sulla penisola italiana (un verso della versione completa dell'inno greco, che è formata da 158 strofe, infatti recita «L'occhio dell'Aquila nutre ali e artigli con le viscere dell'italiano», dove l'aquila è lo stemma imperiale asburgico).
L'Italia è anche citata nell'inno nazionale polacco, scritto nel 1797 a Reggio Emilia in epoca napoleonica, il cui ritornello recita: «Marsz, marsz, Dabrowski, z ziemi wloskiej do Polski» (ovvero "In marcia Dabrowski, dalla terra italiana alla Polonia"). Il testo fa riferimento all'arruolamento, tra le file delle armate napoleoniche di stanza in Italia, di volontari polacchi che erano fuggiti dalla loro terra di origine perché perseguitati per motivi politici; la Polonia era infatti scossa da moti di ribellione che erano finalizzati all'indipendenza del Paese slavo dall'Austria e dalla Russia. Questi volontari parteciparono alla prima campagna d'Italia con la promessa, da parte di Napoleone, di un'incipiente guerra di liberazione della Polonia: in particolare, il testo esorta il generale polacco Jan Henryk Dabrowski a volgere al più presto le armate verso la loro terra. Il riferimento è vicendevole: nella quinta strofa del Canto degli Italiani si cita infatti la situazione politica della Polonia, che all'epoca era simile a quella italiana, dato che entrambi i popoli non avevano una Patria ed erano soggetti a una dominazione straniera.
In origine era presente, nella prima versione del Canto degli Italiani, un'ulteriore strofa che era dedicata alle donne italiane. La strofa, eliminata dallo stesso Mameli prima del debutto ufficiale dell'inno, recitava: «Tessete o fanciulle / bandiere e coccarde / fan l'alme gagliarde / l'invito d'amor».
Nella versione originaria dell'inno, il primo verso della prima strofa recitava «Evviva l'Italia»: fu cambiato in «Fratelli d'Italia» da Michele Novaro. Quest'ultimo, quando ricevette il manoscritto, aggiunse anche un reboante «Sì!» alla fine del ritornello cantato dopo l'ultima strofa.
L'inno debuttò pubblicamente il 10 dicembre 1847 a Genova quando, sul piazzale del santuario della Nostra Signora di Loreto del quartiere di Oregina, fu presentato alla cittadinanza in occasione di una commemorazione della rivolta del quartiere genovese di Portoria contro gli occupanti asburgici durante la guerra di successione austriaca; nell'occasione, venne suonato dalla Filarmonica Sestrese, all'epoca banda municipale di Sestri Ponente, davanti a una parte di quei 30 000 patrioti – provenienti da tutta Italia – che erano convenuti a Genova per la manifestazione.
Vi fu forse una precedente esecuzione pubblica, di cui si è persa la documentazione originale, da parte della Filarmonica Voltrese fondata da Nicola Mameli, fratello di Goffredo, il 9 novembre 1847 a Genova. In questa prima esecuzione pubblica fu cantata la prima versione del Canto degli Italiani, in seguito modificata in quella definitiva.
Essendo il suo autore notoriamente mazziniano, il brano venne proibito dalla polizia sabauda fino al marzo 1848: la sua esecuzione venne vietata anche dalla polizia austriaca, che perseguì pure la sua interpretazione canora – considerata reato politico – sino alla fine della prima guerra mondiale.
I manoscritti autografi giunti sino al XXI secolo sono due; il primo, quello originale legato alla prima stesura, si trova presso l'Istituto mazziniano di Genova, mentre il secondo, quello spedito da Mameli il 10 novembre 1847 a Novaro, è conservato al Museo del Risorgimento di Torino. Il manoscritto autografo che Novaro inviò all'editore Francesco Lucca si trova invece presso l'Archivio Storico Ricordi.
Le prime critiche al Canto degli Italiani furono rivolte da Giuseppe Mazzini. In particolare, il patriota genovese considerava la musica del Canto degli Italiani troppo poco marziale. Mazzini, che contestò anche il testo, commissionò nel 1848 un nuovo brano a Mameli, dando l'incarico a Verdi di musicarlo, il cui titolo era Suona la tromba. Il testo della prima strofa di questo componimento musicale recitava: «Suona la tromba / ondeggiano le insegne / gialle e nere / Fuoco! perdio / sui barbari / sulle vendute schiere / già ferve la battaglia / al Dio dei forti, osanna! / le baionette in canna / è giunta l'ora di pugnar!». Anche questo nuovo canto non ottenne però i favori di Mazzini, e quindi fu il Canto degli Italiani a diventare l'inno simbolo del Risorgimento.
Quando debuttò il Canto degli Italiani, mancavano pochi mesi ai moti del 1848. Poco prima della promulgazione dello Statuto Albertino, era stata abrogata una legge coercitiva che vietava gli assembramenti formati da più di dieci persone. Da questo momento in poi, il Canto degli Italiani conobbe un crescente successo anche grazie alla sua orecchiabilità, che ne facilitò la diffusione tra la popolazione.
Con il passare del tempo, l'inno fu sempre più diffuso e venne cantato quasi in ogni manifestazione, diventando uno dei simboli del Risorgimento. Il brano fu infatti cantato diffusamente dagli insorti in occasione delle cinque giornate di Milano (1848), e venne intonato frequentemente durante i festeggiamenti per la promulgazione, da parte di Carlo Alberto di Savoia, dello Statuto Albertino (sempre nel 1848). Anche la breve esperienza della Repubblica Romana (1849) ebbe, tra gli inni più intonati dai volontari, il Canto degli Italiani, con Giuseppe Garibaldi che fu solito canticchiarlo e fischiettarlo durante la difesa di Roma e la fuga verso Venezia.
Quando il Canto degli Italiani diventò popolare, le autorità sabaude censurarono la quinta strofa, estremamente dura con gli austriaci; tuttavia dopo la dichiarazione di guerra all'Austria e l'inizio della prima guerra d'indipendenza (1848-1849), i soldati e le bande militari sabaude lo eseguivano così frequentemente che re Carlo Alberto fu costretto a ritirare ogni censura. L'inno era infatti diffusissimo, soprattutto tra le file dei volontari repubblicani. Durante la prima guerra d'indipendenza, oltre al Canto degli Italiani, era molto diffuso tra le truppe sabaude il canto risorgimentale Addio mia bella addio.
Il Canto degli Italiani fu uno dei brani più popolari anche durante la seconda guerra d'indipendenza (1859), questa volta insieme al canto risorgimentale La bella Gigogin e al Va, pensiero di Giuseppe Verdi. Fratelli d'Italia fu uno dei canti più intonati anche durante la spedizione dei Mille (1860), con la quale Garibaldi conquistò il Regno delle Due Sicilie; durante questa spedizione, un altro canto diffuso tra i garibaldini fu L'inno di Garibaldi. A Quarto i due brani vennero spesso cantati anche da Garibaldi e dai suoi fedelissimi.
Dopo l'unità d'Italia (1861) come inno nazionale fu scelta la Marcia Reale, composta nel 1831: la decisione fu presa perché il Canto degli Italiani, che aveva contenuti troppo poco conservatori ed era caratterizzato da una decisa impronta repubblicana e giacobina, non si combinava con l'epilogo del Risorgimento, di matrice monarchica. I riferimenti al credo repubblicano di Mameli – che era difatti mazziniano – erano però più di carattere storico che politico; di contro, il Canto degli Italiani era malvisto anche dagli ambienti socialisti e anarchici, che lo consideravano invece all'opposto, cioè troppo poco rivoluzionario.
Dopo la terza guerra di indipendenza, ad Unità d'Italia quasi completata, l'inizio della seconda strofa fu cambiato da "Noi siamo da secoli / calpesti, derisi" a "Noi fummo per secoli / calpesti, derisi", e nel ritornello venne ripetuta la frase "siam pronti alla morte".
Nel 1862 Giuseppe Verdi, nel suo Inno delle Nazioni, che fu composto per l'Esposizione Universale di Londra, affidò al Canto degli Italiani (e non alla Marcia Reale) la funzione di rappresentare l'Italia, autorevole segnale del fatto che non tutti gli italiani individuavano nella Marcia Reale l'inno che esprimeva meglio il sentimento di unità nazionale. Di conseguenza, il Canto degli Italiani, in questa occasione, fu suonato insieme a God Save the Queen e alla Marsigliese. Anche il patriota e politico Giuseppe Massari, che divenne in seguito uno dei più importanti biografi di Cavour, prediligeva, come canto rappresentativo dell'unità nazionale, il Canto degli Italiani. L'unico inno nazionale presente nel componimento di Verdi era God Save the Queen: La Marsigliese, dai forti connotati repubblicani, non era ancora il canto ufficiale dello Stato francese, che all'epoca non era una repubblica bensì una monarchia retta da un imperatore, Napoleone III.
Il brano fu uno dei canti più comuni durante la terza guerra d'indipendenza (1866), e anche la presa di Roma del 20 settembre 1870 fu accompagnata da cori che lo intonavano insieme alla Bella Gigogin e alla Marcia Reale; nell'occasione, il Canto degli Italiani venne spesso eseguito anche dalla fanfara dei bersaglieri. Anche dopo la fine del Risorgimento il Canto degli Italiani, che era insegnato nelle scuole, restò molto popolare tra gli italiani, ma a esso, però, si affiancarono altri brani musicali che erano collegati alla situazione politica e sociale dell'epoca come, ad esempio, l'Inno dei lavoratori oppure Addio a Lugano, che in parte oscurarono la popolarità degli inni risorgimentali (Canto degli Italiani compreso), dato che avevano un significato più legato ai problemi quotidiani.
Fratelli d'Italia, grazie ai riferimenti al patriottismo e alla lotta armata, tornò ad avere successo durante la guerra italo-turca (1911-1912), dove si affiancò ad A Tripoli, e nelle trincee della prima guerra mondiale (1915-1918): l'irredentismo che la caratterizzava trovò infatti un simbolo nel Canto degli Italiani, sebbene negli anni seguenti all'ultimo contesto bellico citato gli sarebbero stati preferiti, in ambito patriottico, brani musicali di maggiore stampo militare come La canzone del Piave, la Canzone del Grappa o La campana di San Giusto. Poco dopo l'entrata in guerra dell'Italia nel primo conflitto mondiale, il 25 luglio 1915, Arturo Toscanini eseguì il Canto degli Italiani durante una manifestazione interventista.
Nel 1916 il poeta e regista Nino Oxilia diresse il film muto L'Italia s'è desta!, il cui titolo riprende la seconda strofa del Canto degli Italiani. La proiezione della pellicola cinematografica veniva accompagnata da una orchestra con coro che eseguiva gli inni patriottici classici più famosi del tempo: l'Inno di Garibaldi, il Canto degli Italiani, il coro del Mosè in Egitto di Gioachino Rossini e i cori del Nabucco e dei I Lombardi alla prima crociata di Giuseppe Verdi.
Dopo la marcia su Roma (1922) assunsero grande importanza i canti prettamente fascisti come Giovinezza e l'Inno Trionfale del Partito Nazionale Fascista, i quali vennero diffusi e pubblicizzati molto capillarmente, oltreché insegnati nelle scuole, pur non essendo inni ufficiali. In questo contesto le melodie non fasciste furono scoraggiate, e il Canto degli Italiani non fu un'eccezione. Nel 1932 il segretario del Partito Nazionale Fascista Achille Starace decise di proibire i brani musicali che non inneggiassero a Benito Mussolini e, più in generale, quelli non legati direttamente al fascismo. La direttiva di Starace recitava che:
«Vieto in modo assoluto che si cantino canzoni o ritornelli che non siano quelli della Rivoluzione e che contengano riferimenti a chiunque non sia il DUCE»
(Achille Starace)
Furono così vietati i brani giudicati sovversivi, cioè quelli di stampo anarchico o socialista, come l'Inno dei lavoratori o L'Internazionale, e gli inni ufficiali delle nazioni straniere non simpatizzanti col fascismo, come La Marsigliese. Dopo la firma dei Patti Lateranensi tra il Regno d'Italia e la Santa Sede (1929), furono vietati anche i brani anticlericali. I canti risorgimentali furono comunque tollerati: al Canto degli Italiani, che era vietato nelle cerimonie ufficiali, fu concessa una certa accondiscendenza solo in occasioni particolari.
Nello spirito di questa direttiva, vennero incoraggiati, ad esempio, canti come l'inno nazista Horst-Wessel-Lied e il canto franchista Cara al sol, trattandosi di brani musicali ufficiali di regimi affini a quello guidato da Mussolini. Diversamente, alcuni brani furono ridimensionati, come La canzone del Piave, cantata quasi esclusivamente durante le commemorazioni dell'anniversario della Vittoria ogni 4 novembre.
Durante la seconda guerra mondiale, vennero diffusi, anche via radio, brani fascisti composti da musicisti di regime: furono quindi pochissimi i canti nati spontaneamente tra la popolazione. Negli anni del secondo conflitto bellico erano comuni brani come A primavera viene il bello, Battaglioni M, Vincere! e Camerata Richard, mentre, tra i canti nati spontaneamente, il più famoso fu Sul ponte di Perati.
Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, il governo italiano adottò provvisoriamente come inno nazionale, in sostituzione della Marcia Reale, La canzone del Piave: la monarchia italiana era infatti stata messa in discussione per aver consentito l'instaurarsi della dittatura fascista; richiamando la vittoria italiana nella prima guerra mondiale, poteva infondere coraggio e speranza alle truppe del Regio Esercito che combattevano i repubblichini e i tedeschi.
In questo contesto, Fratelli d'Italia, insieme agli altri canti risorgimentali e alle canzoni partigiane, tornò a riecheggiare nell'Italia meridionale liberata dagli Alleati e nelle zone controllate dai partigiani a nord del fronte di guerra. Il Canto degli Italiani, in particolare, ebbe un buon successo negli ambienti antifascisti, dove si affiancò alle canzoni partigiane Fischia il vento e Bella ciao. Alcuni studiosi reputano che il successo del brano negli ambienti antifascisti sia stato poi determinante per la sua scelta a inno provvisorio della Repubblica Italiana.
Spesso il Canto degli Italiani viene erroneamente indicato come l'inno nazionale della Repubblica Sociale Italiana di Benito Mussolini. Tuttavia è documentata la mancanza di un inno nazionale ufficiale della Repubblica di Mussolini: nelle cerimonie veniva infatti eseguito il Canto degli Italiani oppure Giovinezza. Il Canto degli Italiani e – più in generale – le tematiche risorgimentali furono utilizzate dalla Repubblica di Mussolini, con un cambio di rotta rispetto al passato, per soli fini propagandistici.
Nel 1945, a guerra terminata, Arturo Toscanini diresse a Londra l'esecuzione dell'Inno delle Nazioni composto da Verdi nel 1862 e comprendente anche il Canto degli Italiani; come inno nazionale provvisorio, anche dopo la nascita della Repubblica italiana, fu però temporaneamente confermata La canzone del Piave.
Per la scelta dell'inno nazionale si aprì un dibattito che individuò, tra le opzioni possibili: il Va, pensiero dal Nabucco di Verdi, la stesura di un brano musicale completamente nuovo, il Canto degli italiani, l'Inno di Garibaldi e la conferma della Canzone del Piave. La classe politica dell'epoca approvò poi la proposta del ministro della Guerra Cipriano Facchinetti, che prevedeva l'adozione del Canto degli italiani come inno provvisorio dello Stato.
La canzone del Piave ebbe quindi la funzione di inno nazionale della Repubblica Italiana fino al Consiglio dei Ministri del 12 ottobre 1946, quando Cipriano Facchinetti (di credo politico repubblicano), comunicò ufficialmente che durante il giuramento delle Forze Armate del 4 novembre, quale inno provvisorio, si sarebbe adottato il Canto degli Italiani. Il comunicato stampa recitava che:
«Su proposta del Ministro della Guerra si è stabilito che il giuramento delle Forze Armate alla Repubblica e al suo Capo si effettui il 4 novembre p.v. e che, provvisoriamente, si adotti come inno nazionale l'inno di Mameli»
(Cipriano Facchinetti)
Facchinetti dichiarò, altresì, che si sarebbe proposto uno schema di decreto che avrebbe confermato il Canto degli Italiani inno nazionale provvisorio della neonata Repubblica, intenzione che, però, non ebbe seguito. Il consenso sulla scelta del Canto degli Italiani non fu unanime: dalle colonne de l'Unità, cioè dal quotidiano del Partito Comunista Italiano, fu proposto, come brano musicale nazionale, l'Inno di Garibaldi. La sinistra italiana considerava infatti, quale figura di spicco rappresentativa del Risorgimento, Garibaldi e non Mazzini, che era reputato di secondo piano rispetto all'eroe dei due mondi.
Facchinetti propose di ufficializzare il Canto degli Italiani nella Costituzione, in preparazione proprio in quel momento, ma senza esito. La Costituzione, entrata in vigore nel 1948, sancì infatti, nell'articolo 12, l'uso del Tricolore come bandiera nazionale, ma non stabilì quale sarebbe stato l'inno, e nemmeno il simbolo della Repubblica, che fu poi adottato con decreto legislativo datato 5 maggio 1948. L'emblema fu scelto dopo due concorsi a cui parteciparono, complessivamente, 800 loghi realizzati da 500 artisti; risultò poi vincitore Paolo Paschetto col suo noto Stellone. Tuttavia, l'approvazione definitiva della Costituzione, avvenuta il 22 dicembre 1947 ad opera dell'Assemblea Costituente, fu salutata dal pubblico che assisteva alla seduta dalle tribune (e in seguito anche dai padri costituenti), con una spontanea esecuzione del Canto degli Italiani. Un disegno di legge costituzionale preparato nell'immediato dopoguerra il cui obiettivo finale era l'inserimento, nell'articolo 12, del comma "L'inno della Repubblica è Fratelli d'Italia" non ebbe seguito, come pure l'ipotesi di un decreto presidenziale che emanasse un'apposita disciplinare.
In alcuni eventi istituzionali organizzati all'estero poco dopo la proclamazione della Repubblica, a causa della mancata ufficializzazione del Canto degli Italiani, i corpi musicali delle nazioni ospitanti suonarono per errore, tra l'imbarazzo delle autorità italiane, la Marcia Reale. In un'occasione, in uno Stato africano, la banda nazionale del Paese ospitante eseguì invece, in luogo dell'inno nazionale italiano, 'O sole mio.
Il Canto degli Italiani ha poi avuto un grande successo tra gli emigranti italiani: spartiti di Fratelli d'Italia si possono infatti trovare, insieme al Tricolore, in molti negozi delle varie Little Italy sparse nel mondo anglosassone. L'inno nazionale italiano è spesso suonato in occasioni più o meno ufficiali in Nord e Sud America: in particolare, è stato la "colonna sonora" delle raccolte fondi destinate alla popolazione italiana uscita devastata dal conflitto, che furono organizzate nel secondo dopoguerra nelle Americhe.
Dopo il raggiungimento dello status di inno nazionale provvisorio, il Canto degli Italiani iniziò ad essere oggetto di critiche, tant'è che a più riprese si parlò della sua sostituzione. Negli anni 1950 fu deciso di effettuare un sondaggio radiofonico per stabilire quale brano musicale avrebbe dovuto sostituire il Canto degli Italiani come inno nazionale italiano: in questa inchiesta, che comunque non decretò il cambio ufficiale dell'inno per via del poco successo ottenuto, vinse il Va, pensiero di Verdi. Poco dopo il sondaggio citato, fu bandito un concorso pubblico per la stesura di un brano completamente nuovo che avrebbe dovuto sostituire il Canto degli Italiani: l'intenzione era quella di avere un inno più moderno e di maggiore caratura culturale, ma questo bando non ebbe seguito a causa della scarsa qualità delle composizioni musicali pervenute. Nel 1960 la Rai, in un programma televisivo, lanciò un sondaggio per scegliere il brano musicale che avrebbe dovuto sostituire il Canto degli Italiani come inno nazionale italiano; le opzioni presentate furono però tutte bocciate dal pubblico.
Le critiche continuarono anche nei decenni seguenti; a partire dal Sessantotto, il Canto degli Italiani fu progressivamente oggetto di disinteresse collettivo e – molto spesso – di una vera e propria avversione. Dati i suoi richiami alla lotta armata e alla Patria, Fratelli d'Italia era visto come un brano musicale arcaico e dalle marcate caratteristiche di destra. Tra gli esponenti politici che proposero, negli anni, la sostituzione del Canto degli Italiani ci furono Bettino Craxi, Umberto Bossi e Rocco Buttiglione. Tra i musicisti che chiesero un nuovo inno nazionale ci fu invece Luciano Berio. Michele Serra suggerì la revisione del testo in italiano moderno, mentre Antonio Spinosa giudicò il Canto degli Italiani troppo maschilista.
Fu l'ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, all'inizio del XXI secolo, a iniziare un'opera di valorizzazione e di rilancio del Canto degli Italiani come uno dei simboli dell'identità nazionale. In riferimento al Canto degli Italiani, Ciampi dichiarò che:
«È un inno che, quando lo ascolti sull'attenti, ti fa vibrare dentro; è un canto di libertà di un popolo che, unito, risorge dopo secoli di divisioni, di umiliazioni»
(Carlo Azeglio Ciampi)
Per ovviare alle critiche, l'allora presidente della Repubblica affidò spesso le esecuzioni dell'inno, nelle occasioni ufficiali, ad alcuni importanti direttori d'orchestra come Zubin Mehta, Giuseppe Sinopoli, Claudio Abbado e Salvatore Accardo.
Ciampi ripristinò anche il giorno festivo per la Festa della Repubblica del 2 giugno e la relativa parata militare in via dei Fori Imperiali a Roma, operando una più generale azione di valorizzazione dei simboli patri italiani. L'iniziativa di Ciampi è stata ripresa e continuata anche dal suo successore, Giorgio Napolitano, con particolare risalto durante le celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità d'Italia.
L'azione di Ciampi iniziò dopo il suo clamoroso gesto di protesta nei confronti di Riccardo Muti alla prima della stagione scaligera del 1999-2000. Ciampi rifiutò infatti la rituale visita di congratulazioni al direttore d'orchestra nel suo camerino, in quanto Muti non aveva aperto la serata, come era d'uso, suonando il Canto degli Italiani, da lui ritenuto inadeguato a introdurre il Fidelio di Ludwig van Beethoven. D'altra parte, lo stesso Muti ha difeso Il Canto degli Italiani, apprezzando l'invito all'azione con l'obiettivo di affrancarsi dal dominio straniero che l'inno rivolge al popolo italiano rispetto al dolore comunicato dal pur melodicamente superiore Va, pensiero – il candidato più frequente alla sua sostituzione – e ritenendo pertanto Fratelli d'Italia, con il suo carico di significati rinvigorenti lo spirito patriottico, più adatto ad essere suonato nelle occasioni ufficiali. Altri musicisti, come il compositore Roman Vlad, già sovrintendente del Teatro alla Scala di Milano, considerano la musica tutt'altro che brutta e non inferiore a quella di molti altri inni nazionali.
In occasione dei festeggiamenti del 2 giugno 2002, ne è stata presentata una versione filologicamente corretta nella melodia della partitura, opera di Maurizio Benedetti e Michele D'Andrea, che ha ripreso i segni d'espressione presenti nel manoscritto di Novaro.
Nel Canto degli Italiani è presente un forte richiamo alla storia dell'antica Roma poiché nelle scuole dell'epoca questo periodo storico era studiato con attenzione; in particolare, la preparazione culturale di Mameli aveva forti connotati classici.
Nel ritornello è citata la coorte, un'unità militare dell'esercito romano corrispondente alla decima parte della legione. Con «Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte, l'Italia chiamò» si allude alla chiamata alle armi del popolo italiano con l'obiettivo di cacciare il dominatore straniero dal suolo nazionale e di unificare il Paese, all'epoca ancora diviso in sette Stati preunitari. "Stringersi a coorte" significa infatti serrare metaforicamente le file tenendosi pronti a combattere. La storia romana repubblicana è poi ripresa anche nella prima strofa del componimento.
Il reboante «Sì!» aggiunto da Novaro al ritornello cantato dopo l'ultima strofa allude invece al giuramento, da parte del popolo italiano, di battersi fino alla morte pur di ottenere la liberazione del suolo nazionale dallo straniero e l'unificazione del Paese. Nel ritornello è presente, per questioni di metrica, il termine sincopato "stringiamci" (senza la lettera "o") in luogo di "stringiamoci".
Nel primo verso della prima strofa è contenuto un richiamo al fatto che gli italiani appartengono a un unico popolo e che sono, quindi, «Fratelli d'Italia». Dal primo verso originò poi uno dei nomi con cui è conosciuto il Canto degli Italiani. L'esortazione agli italiani, intesi come "fratelli", a combattere per il proprio Paese si ritrova nel primo verso di molte poesie patriottiche risorgimentali: «Su, figli d'Italia! su, in armi! coraggio!» è infatti l'inizio di All'armi! all'armi! di Giovanni Berchet, mentre «Fratelli, all'armi, all'armi!» è il primo verso di All'armi! di Gabriele Rossetti; «Fratelli, sorgete» è invece l'inizio dell'omonimo coro di Giuseppe Giusti. Un canto popolare toscano, attribuito a Francesco Domenico Guerrazzi e inneggiante a papa Pio IX, aveva invece come primo verso «Su, fratelli! D'un Uom la parola».
Nella prima strofa viene anche citato il politico e militare romano Publio Cornelio Scipione (chiamato, nell'inno, col nome latino di Scipio) il quale, sconfiggendo il generale cartaginese Annibale nella battaglia di Zama (18 ottobre 202 a.C.), concluse la seconda guerra punica liberando la penisola italiana dall'esercito cartaginese. Dopo questa battaglia Scipione fu soprannominato "Scipione l'Africano". Secondo Mameli, l'elmo di Scipione è ora indossato metaforicamente dall'Italia («Dell'elmo di Scipio s'è cinta la testa») pronta a combattere («L'Italia s'è desta», cioè "si è svegliata") per liberarsi dal giogo straniero ed essere di nuovo unita. L'esaltazione retorica della figura di Scipione sarà ripresa durante il fascismo con la produzione cinematografica Scipione l'Africano, uno dei colossal storici del tempo. L'affermazione «l'Italia s'è desta» era già inserita nell'inno nazionale della Repubblica Partenopea del 1799, che venne musicato da Domenico Cimarosa prendendo spunto dagli scritti di Luigi Rossi: «Bella Italia, ormai ti desta / Italiani all'armi, all'armi: / Altra sorte ormai non resta / Che di vincer, o morir».
Sempre nella prima strofa, si fa accenno anche alla dea Vittoria (con la domanda retorica «Dov'è la Vittoria?»), che per lungo tempo è stata strettamente legata all'antica Roma («Ché schiava di Roma») per disegno di Dio («Iddio la creò»), ma che ora si consacra alla nuova Italia porgendole i capelli per farseli tagliare («Le porga la chioma») diventandone così "schiava". Questi versi fanno riferimento all'abitudine delle schiave dell'antica Roma di portare i capelli corti: le donne romane libere, invece, li portavano lunghi. Per quanto riguarda "schiava di Roma", il senso è che l'antica Roma fece, con le sue conquiste, la dea Vittoria "sua schiava". Ora, però, secondo Mameli, la dea Vittoria è pronta a "essere schiava" della nuova Italia nella serie di guerre che sono necessarie per cacciare lo straniero dal suolo nazionale e per unificare il Paese.
Con questi versi Mameli, con una tematica cara al Risorgimento, allude quindi al risveglio dell'Italia da un torpore durato secoli, rinascita che è ispirata dalle glorie della Roma antica.
All'interno della seconda strofa si fa invece riferimento ad un desiderio: la speranza (chiamata, nell'inno, la "speme") che l'Italia, ancora divisa negli stati preunitari e quindi da secoli spesso trattata come terra di conquista («Noi siamo da secoli / calpesti, derisi, / perché non siam popolo, / perché siam divisi»), si raccolga finalmente sotto un'unica bandiera fondendosi in una sola nazione («Raccolgaci un'unica / Bandiera, una speme: / di fonderci insieme, / già l'ora suonò»).
Mameli, nella seconda strofa, sottolinea quindi il motivo della debolezza dell'Italia: le divisioni politiche.
La terza strofa incita alla ricerca dell'unità nazionale con l'aiuto della Provvidenza e grazie alla partecipazione dell'intero popolo italiano finalmente unito in un intento comune («Uniamoci, amiamoci, / l'Unione, e l'amore, / rivelano ai Popoli / le vie del Signore; / Giuriamo far libero, / il suolo natìo: / Uniti per Dio, / chi vincer ci può?»). L'espressione "per Dio" è un francesismo (fr. "par Dieu"): Mameli intende "da Dio", "da parte di Dio", ovvero con l'aiuto della Provvidenza.
Questi versi riprendono l'idea mazziniana di un popolo unito e coeso che combatte per la propria libertà seguendo il desiderio di Dio. Infatti i motti della Giovine Italia erano proprio «Unione, forza e libertà» e «Dio e popolo». In questi versi è anche riconoscibile l'impronta romantica del contesto storico dell'epoca.
Nella quarta strofa sono inseriti riferimenti ad avvenimenti importanti legati alla secolare lotta degli italiani contro il dominatore straniero: citando questi esempi, Mameli vuole infondere coraggio al popolo italiano spingendolo a cercare la rivincita. La quarta strofa inizia con un riferimento alla battaglia di Legnano («Dall'Alpi a Sicilia / dovunque è Legnano»), combattuta il 29 maggio 1176 nei pressi della città omonima, che vide la Lega Lombarda vittoriosa sull'esercito imperiale di Federico Barbarossa. La battaglia di Legnano pose fine al tentativo di egemonizzazione dell'Italia Settentrionale da parte dell'imperatore tedesco. Legnano, grazie alla storica battaglia, è l'unica città, oltre a Roma, a essere citata nell'inno nazionale italiano.
Nella stessa strofa è citato anche "Ferruccio" («Ogn'uom di Ferruccio / ha il core, ha la mano»), ovvero Francesco Ferrucci (noto anche come "Francesco Ferruccio"), l'eroico condottiero al servizio della Repubblica di Firenze che fu sconfitto nella battaglia di Gavinana (3 agosto 1530) dall'imperatore Carlo V d'Asburgo durante l'assedio della città toscana. Ferrucci – prigioniero, ferito e inerme – venne poi giustiziato da Fabrizio Maramaldo, un soldato di ventura italiano che combatteva per l'imperatore. Prima di morire, Ferrucci rivolse con disprezzo a Maramaldo le celebri parole: «Vile, tu uccidi un uomo morto!». In seguito il sostantivo "maramaldo" verrà associato a termini quali "vile", "traditore" e "fellone".
Nella quarta strofa si fa anche cenno a Balilla («I bimbi d'Italia / si chiaman Balilla»), il giovane da cui originò, il 5 dicembre 1746, con il lancio di una pietra a un ufficiale, la rivolta popolare del quartiere genovese di Portoria contro gli occupanti asburgici durante la guerra di successione austriaca. Questa rivolta portò poi alla liberazione della città ligure. Furono questi versi di Mameli, probabilmente, a ispirare il nome dell'Opera nazionale balilla, ossia dell'ente istituito dal fascismo che inquadrava, tra i propri ranghi, i giovani italiani dai 6 ai 18 anni.
Nella stessa strofa si accenna anche ai Vespri siciliani («Il suon d'ogni squilla / i Vespri suonò»), l'insurrezione avvenuta a Palermo nel 1282 che diede avvio a una serie di scontri chiamati "guerre del Vespro". Queste guerre portarono poi alla cacciata degli angioini dalla Sicilia. Per "ogni squilla" Mameli intende dire "ogni campana", facendo riferimento agli squilli di campane avvenuti il 30 marzo 1282 a Palermo, con i quali il popolo fu chiamato alla rivolta contro gli angioini dando così inizio ai Vespri siciliani. Le campane che chiamarono il popolo all'insurrezione furono quelle del vespro, ossia quelle della preghiera del tramonto, da cui deriva il nome della rivolta.
La quinta strofa è invece dedicata all'Impero austriaco in decadenza. Nel testo si fa infatti riferimento alle truppe mercenarie asburgiche («Le spade vendute»), di cui la monarchia asburgica faceva ampio uso. Esse – secondo Mameli – sono "deboli come giunchi" («Son giunchi che piegano») dato che, combattendo solo per denaro, non sono valorose come i soldati e i patrioti che si sacrificano per la propria nazione. La presenza di queste truppe mercenarie, per Mameli, ha indebolito l'Impero austriaco.
Nella strofa si fa anche accenno all'Impero russo (nell'inno chiamato «il cosacco») che partecipò, insieme all'Impero austriaco e al Regno di Prussia, alla fine del Settecento, alla spartizione della Polonia. È quindi presente un richiamo a un altro popolo oppresso dagli austriaci, quello polacco, che tra il febbraio e il marzo del 1846 fu oggetto di una violenta repressione ad opera dell'Austria e della Russia.
Con i versi «Già l'Aquila d'Austria / le penne ha perdute. / Il sangue d'Italia, / il sangue Polacco, / bevé, col cosacco, / ma il cor le bruciò» Mameli intende quindi dire che il popolo italiano e quello polacco minano dall'interno l'Impero austriaco in decadenza, come conseguenza delle repressioni patite e per via delle truppe mercenarie che indebolivano l'esercito imperiale austriaco. Il testo fa riferimento all'aquila bicipite, stemma imperiale asburgico.
La quinta strofa del Canto degli Italiani, dai forti connotati politici, fu inizialmente censurata dal governo sabaudo per evitare attriti con l'Impero austriaco.
La sesta ed ultima strofa, che non viene quasi mai eseguita, comparve nelle edizioni stampate dopo il 1859 in aggiunta alle cinque definite da Mameli nella scrittura originaria del canto (Mameli morì il 6 luglio 1849 durante la difesa della Repubblica Romana) e preannuncia, con gioia, l'unità d'Italia («Evviva l'Italia, / dal sonno s'è desta»). La strofa prosegue chiudendo il canto con gli stessi tre versi che concludono la quartina della strofa iniziale («Dell'elmo di Scipio, / s'è cinta la testa. / Dov'è la Vittoria? / Le porga la chioma, / ché schiava di Roma, / Iddio la creò»).
Il testo del Canto degli Italiani è giudicato talvolta troppo retorico, di difficile interpretazione e a tratti aggressivo. Per quanto riguarda la retorica e la violenza che a tratti traspare dalle parole di Mameli, secondo Tarquinio Maiorino, Giuseppe Marchetti Tricamo e Piero Giordana, che hanno redatto una monografia sull'argomento, va considerato il periodo storico in cui fu scritto il Canto degli Italiani: la metà del XIX secolo era caratterizzata da un modo esprimersi differente da quello utilizzato in tempi più recenti. Inoltre, secondo lo storico Gilles Pécout, è anche opportuno osservare che, durante il secolo citato, il principale mezzo di risoluzione dei conflitti era la guerra.
Invece, per quanto concerne la difficoltà nel cogliere il significato delle allusioni storiche e politiche contenute nel testo, che sono giudicate tutt'altro che immediate, Michele Calabrese, nella sua monografia sull'argomento, riconosce all'inno un certo spessore intellettuale: tra la cospicua produzione patriottica del Risorgimento, secondo Calabrese, il Canto degli Italiani ha infatti un testo caratterizzato da un profondo significato storico e culturale.
Alcuni revisionisti del Risorgimento vedono invece, nel testo del Canto degli Italiani, alcuni riferimenti che sono riconducibili alla massoneria.
Anche il richiamo all'antica Roma è stata foriera di critiche: molti hanno visto, nei versi di Mameli, un'allusione all'imperialismo. Gli studiosi dell'Istituto mazziniano di Genova hanno però sviscerato meglio, su un testo preparato per i 150 anni del Canto degli Italiani, il pensiero di Mameli: il patriota genovese, con i suoi versi, non accenna alla Roma imperiale bensì alla Repubblica romana, che si difese con coraggio dalle mire espansionistiche di Cartagine sulla penisola italiana.
Il componimento musicale di Novaro è scritto in un tipico tempo di marcia (4/4) nella tonalità di si bemolle maggiore. Ha un carattere orecchiabile e una facile linea melodica che semplifica la memoria e l'esecuzione.
Il documento sonoro più antico conosciuto del Canto degli Italiani (disco a 78 giri per grammofono, 17 cm di diametro) è datato 1901 e venne inciso dalla Banda Municipale del Comune di Milano sotto la direzione del maestro Pio Nevi.
Una delle prime registrazioni di Fratelli d'Italia fu quella del 9 giugno 1915, che venne eseguita dal cantante lirico e di musica napoletana Giuseppe Godono. L'etichetta per cui il brano venne inciso fu la Phonotype di Napoli.
Un'altra antica incisione pervenuta è quella della Banda del Grammofono, registrata a Londra per la casa discografica His Master's Voice il 23 gennaio 1918.
La cantautrice Elisa realizzò anche una versione gospel che avrebbe dovuto aprire le trasmissioni sportive Rai dedicate al campionato mondiale di calcio del 2002.
Questa versione, commissionata in precedenza dal comitato organizzatore delle Olimpiadi invernali di Torino 2006 e già eseguita durante la cerimonia di chiusura dei Giochi olimpici invernali precedenti, fu ritirata per le proteste di Maurizio Gasparri, all'epoca Ministro delle Comunicazioni del secondo governo Berlusconi.
Per decenni si è dibattuto a livello governativo e parlamentare sulla necessità di rendere il Canto degli Italiani inno ufficiale de iure della Repubblica Italiana, ma senza che si arrivasse mai all'approvazione di una legge o di una modifica costituzionale che sancisse lo stato di fatto, riconosciuto peraltro anche in tutte le sedi istituzionali.
Nel 2005 fu approvato un disegno di legge nella Commissione affari costituzionali del Senato; la proposta non ebbe seguito a causa della scadenza della legislatura, anche se fu fatta un'erronea comunicazione dove era riportato il fatto che fosse stato approvato un decreto legge datato 17 novembre, grazie al quale il Canto degli Italiani avrebbe ottenuto il crisma dell'ufficialità. Tale informazione errata fu poi riportata anche da fonti autorevoli.
Nel 2006, con la nuova legislatura, è stato discusso, sempre nella Commissione affari costituzionali del Senato, un disegno di legge che prevedeva l'adozione di un disciplinare circa il testo, la musica e le modalità di esecuzione dell'inno. Lo stesso anno venne presentato al Senato un disegno di legge costituzionale che prevedeva la modifica dell'art. 12 della Costituzione italiana con l'aggiunta del comma «L'inno della Repubblica è Fratelli d'Italia», ma che non ebbe seguito a causa dello scioglimento anticipato delle camere.
Nel 2008, altre iniziative analoghe sono state adottate in sede parlamentare, peraltro senza mai portare a termine l'ufficializzazione del Canto degli Italiani nella Costituzione, che resta perciò ancora provvisorio e adottato ad interim.
Il 23 novembre 2012 è stata approvata una legge che prevede l'obbligo di insegnare il Canto degli Italiani e gli altri simboli patri italiani nelle scuole. Tale norma prevede anche l'insegnamento del contesto storico in cui avvenne la stesura del brano musicale, con particolare attenzione alle premesse che portarono alla sua nascita.
Sebbene il Canto degli Italiani abbia lo status di inno provvisorio, è stato comunque stabilito un cerimoniale pubblico per la sua esecuzione, che è in vigore tuttora. Secondo l'etichetta, durante la sua esecuzione, i soldati devono presentare le armi, mentre gli ufficiali devono stare sull'attenti. I civili, a loro volta, se lo desiderano, possono mettersi anch'essi sull'attenti.
In base al cerimoniale, in occasione di eventi ufficiali, devono essere eseguite solamente le prime due strofe senza l'introduzione. Se l'evento è istituzionale, e si deve eseguire anche un inno straniero, questo viene suonato per primo come atto di cortesia.
Nel 1970 è stato decretato l'obbligo, rimasto però quasi sempre inadempiuto, di eseguire l'Ode alla gioia di Ludwig van Beethoven, ossia l'inno ufficiale dell'Unione europea, ogni qualvolta venga suonato il Canto degli italiani.
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