LA DETENZIONE DOMICILIARE
La detenzione domiciliare era originariamente prevista dall'articolo 47 della legge sull'ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975 n. 354), l'istituto è stato poi modificato all'art. 47-ter della legge 10 ottobre 1986 n. 663 (cosiddetta legge Gozzini, dal promotore Mario Gozzini), e successivamente da una serie di vari interventi legislativi.
Nell'attesa della definizione delle recenti norme che prevedono la detenzione domiciliare come ipotesi prevalente per le condanne sino a tre anni, essa può essere concessa dai Tribunali di Sorveglianza a soggetti che siano stati condannati ad una pena detentiva e debbano ancora scontare un residuo di pena non superiore a due anni, previa valutazione dell'idoneità del condannato per la misura; dal 2010 esiste anche la detenzione domiciliare speciale con meno requisiti e concedibile direttamente dal Magistrato di Sorveglianza ma solo per gli ultimi 12 mesi di pena, poi portati nel 2012 a 18 mesi; tale misura, inizialmente provvisoria sino al 31.12.2013, è poi divenuta definitiva.
Il decreto legge 1 luglio 2013, n. 78, convertito con modificazioni in l. 9 agosto 2013, n. 94, ha introdotto alcune modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e al codice di procedura penale, al fine di far fronte all'emergenza carceraria, e per questo motivo è stato rinominato "decreto carceri". Per quanto sia sicuramente accompagnato da buone intenzioni, ancora una volta si tratta di semplici modifiche al sistema, nuovi incisi alle norme dell'ordinamento, rinvii o abrogazioni, che complicano il sistema invece di semplificarlo, e risolvono poco. L'emergenza a cui si assiste in questi anni, emergenza che per la verità investe tutti i settori dell'ordinamento, giustifica l'utilizzo, che è diventato ormai la regola, della decretazione d'urgenza. Al di là del dibattito sulla liceità o meno di questa nuova prassi, quello che sicuramente non si può fare con le leggi di emergenza è una riforma globale, complessiva del diritto penale. Si continua a costruire sopra un edificio che è instabile dalle fondamenta, in questo modo si peggiora la situazione, rendendolo ancora più precario.
Il "decreto carceri", per quanto riguarda le modifiche apportate all'ordinamento penitenziario, è andato in una ben precisa direzione: ha eliminato le norme, non tutte, introdotte dalla legge "ex Cirielli", l. 5 dicembre 2005, n. 251, precisamente, ha eliminato le norme che rendevano precluso o comunque più difficoltoso l'accesso ai benefici da parte di coloro che sono stati dichiarati recidivi reiterati in sentenza di condanna.
In particolare, ha soppresso il comma 1.1 dell'articolo 47-ter che regolava l'accesso alla detenzione domiciliare del primo comma, e che aveva abbassato il limite edittale a 3 anni al condannato a cui fosse stato applicato l'art. 99, comma quarto, c.p. Ha eliminato, inoltre, l'inciso inserito nel comma 1-bis che escludeva l'accesso alla detenzione domiciliare "generica" alla stessa categoria di persone. Lo stesso discorso vale per la semilibertà, come accennato nel primo capitolo, ma non per i permessi premio, per i quali la proposta di abrogare l'art. 30-quater, inserita nel decreto legge, non è stata approvata nella legge di conversione. Per quanto riguarda la disciplina dell'art. 47-ter ord. pen., l'unica ipotesi che continua a rimanere preclusa ai recidivi reiterati è la detenzione domiciliare per ultrasettantenni.
Quindi, si può affermare che il "decreto carceri" ha inteso riportare la valutazione sulla meritevolezza o meno dei recidivi reiterati ad accedere ai benefici penitenziari alla discrezionalità della magistratura di sorveglianza. Elimina "il doppio binario" dell'art. 99, comma quarto, nel rispetto dei principi costituzionali dell'ordinamento, in base ai quali il percorso rieducativo di una persona non può essere precluso automaticamente, per la sola appartenenza ad una categoria di autori o per il titolo di reato. In pratica, ha dichiarato il fallimento della legge 251 del 2005. Ciò non vuol dire che tutti i soggetti che sono stati dichiarati recidivi ai sensi del quarto comma dell'art. 99 debbano essere ammessi alle misure alternative, ma che non devono esserne esclusi a priori. Queste disposizioni avranno sicuramente un impatto sul fenomeno del sovraffollamento nelle carceri, permettendo una rivalutazione di quelle situazioni che prima, ex lege, non potevano essere prese in considerazione ai fini della concessione dei benefici.
Nella conversione in legge del decreto è stato soppresso l'articolo che abrogava il comma 7-bis dell'art. 58-quater. Pertanto, è rimasta in vigore la norma che vieta di concedere più di una volta, ai recidivi qualificati, l'affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare oppure la semilibertà. La Corte di Cassazione ha però interpretato questa norma nel senso che la preclusione riguarda solo la concessione, più di una volta, dello stesso beneficio, non di un altro. Pertanto, al recidivo ai sensi del quarto comma dell'art. 99 c.p., che ha, ad esempio, usufruito della semilibertà, può comunque essere concessa la detenzione domiciliare. La Corte costituzionale, a sua volta, ha cercato di limitare la portata di questa disposizione, affermando che l'interpretazione costituzionalmente legittima del comma 7-bis dell'art. 58-quater porta alla preclusione assoluta dell'accesso ai benefici penitenziari solo quando il reato, espressione della recidiva reiterata, sia stato commesso dopo aver fruito della misura alternativa, durante l'esecuzione di una pena che a sua volta era stata irrogata per un reato a cui era stata applicata l'aggravante dell'art. 99, comma quarto, del codice penale. Ciò significa che la preclusione sarebbe assoluta solo quando l'individuo dopo aver sperimentato una misura alternativa pur essendo stato dichiarato recidivo reiterato, commetta un ulteriore reato, manifestando un'intolleranza verso il rispetto delle regole e l'inutilità delle misure alternative nel prevenire la commissione di ulteriori reati. Dunque, la giurisprudenza, sia di legittimità che costituzionale, ha cercato di limitare la rigidità, l'automatismo dell'art. 58-quater, comma 7-bis, tuttavia la norma esiste ancora e costituisce tutt'ora un freno notevole al trattamento rieducativo dei recidivi qualificati, perciò, sarebbe stato meglio rimettere anche questa decisione alla discrezionalità giudiziale.
Un'altra novità introdotta dal decreto 78/2013 ha ad oggetto l'articolo 656 del codice di procedura penale, che si occupa dell'esecuzione delle pene detentive. L'articolo in commento, al quinto comma in particolare, disciplina l'ipotesi in cui una persona sia stata condannata ad una pena detentiva non superiore ai 3 anni, oppure ai 6 anni nei casi di cui agli articoli 90 e 94 del Testo unico sugli stupefacenti, ovvero quando la persona sia tossicodipendente. Se ricorrono queste condizioni, il pubblico ministero emette l'ordine di esecuzione, ma contestualmente lo sospende al fine di permettere al condannato e al suo difensore, di presentare istanza, entro 30 giorni, al Tribunale di sorveglianza con cui richiedere la concessione di una misura alternativa. In questo modo, è possibile l'accesso alle alternative alla detenzione direttamente dalla libertà, evitando al condannato di entrare in carcere, anche per pochi giorni, quando la brevità della pena che gli è stata inflitta porta a presumere che potrebbe essergli concessa una misura alternativa. È il meccanismo, introdotto dalla legge n. 165 del 1998, volto a incentivare la concessione ab initio delle alternative al carcere. Tra l'altro non c'è nessuna discrezionalità nell'obbligo di sospendere l'ordine di esecuzione. La norma si rivolge ai condannati liberi e si estende alle persone agli arresti domiciliari, realizzando il coordinamento tra la misura cautelare degli arresti e la possibilità di far proseguire la sanzione, se ricorrono le altre condizioni, sotto forma di detenzione domiciliare. In base al comma 10, inoltre, non c'è bisogno dell'istanza delle persone agli arresti domiciliari, ma è il pubblico ministero a inviare gli atti direttamente al Tribunale di sorveglianza, affinché provveda all'eventuale applicazione di una misura alternativa.
Ci sono, però, dei soggetti che sono esclusi dalla possibilità di usufruire della sospensione dell'ordine di esecuzione, e sono i condannati per uno dei delitti previsti all'articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975 e i condannati che si trovano in custodia cautelare per il fatto oggetto della condanna. Tra questi esclusi erano stati aggiunti i soggetti a cui è stata applicata in condanna la recidiva aggravata ai sensi del quarto comma dell'art. 99 c.p., che il "decreto carceri" ha provveduto ad eliminare. Perciò, questa categoria di soggetti potrà nuovamente attendere fuori dal carcere la decisione del tribunale sulla concessione di una misura alternativa, sempre che la pena detentiva non sia superiore a 3 anni, oppure 6 se si tratta di persona tossicodipendente.
Inoltre, è stato modificato il comma 5 dell'articolo 656, permettendo che nei casi in cui si rientri nelle ipotesi particolari previste dal comma 1 dell'articolo 47-ter la pena detentiva da sospendere può arrivare fino a 4 anni. In questo modo, si supera una discrasia presente nell'ordinamento, che prevedeva la possibilità di sospendere l'ordine di esecuzione solo per le pene fino a tre anni, senza considerare che la misura della detenzione domiciliare prevista al comma uno dell'art. 47-ter si può ottenere per pene fino a 4 anni.
La novità più rilevante, tuttavia, è un'altra. Il nuovo comma 4-bis dell'articolo 656 c.p.p. prevede la possibilità di tenere in considerazione le eventuali detrazioni derivanti dalla liberazione anticipata nel calcolo della pena che può essere sospesa. Il pubblico ministero, se verifica la sussistenza di periodi di custodia cautelare o di pena dichiarata fungibile, che permettano un'eventuale detrazione per mezzo della liberazione anticipata, tale da far rientrare la pena nei limiti del comma 5, invia gli atti del magistrato di sorveglianza affinché provveda, quando lo ritenga opportuno, prima ancora di aver emesso l'ordine di esecuzione. Si permette dunque di scomputare i giorni che potrebbero essere detratti tramite la liberazione anticipata, per far rientrare la pena detentiva nei termini per la sospensione. Se però il condannato si trova in custodia cautelare per lo stesso fatto oggetto della condanna, il pubblico ministero emette prima l'ordine di esecuzione e poi trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza, se ricorrono gli ulteriori presupposti anzidetti. Accade che, quando il condannato è libero o agli arresti domiciliari, i tempi per l'emissione dell'ordine di esecuzione sospeso, vengano dilatati in attesa che il magistrato di sorveglianza si pronunci sulla liberazione anticipata. Infatti, la norma precisa che l'invio degli atti al magistrato di sorveglianza avvenga prima dell'emissione dell'ordine di esecuzione, in questo modo si aggiunge un passaggio ulteriore che rischia di allungare non poco i tempi per la messa ad esecuzione della pena.
La difficoltà maggiore deriva però dal fatto che molti detenuti non hanno un domicilio idoneo e sono molto rare le strutture che si prestano all'accoglienza di chi non disponga del domicilio (perché non l'ha mai avuto, perché è venuto meno durante il periodo di carcerazione, perché gli ex coabitanti rifiutano di riospitarlo, perché il domicilio è frequentato da pregiudicati, perché il domicilio proposto non è facilmente controllabile dalle forze dell'ordine, ecc.).
Può essere concessa per un periodo non superiore a quattro anni a (salvo i condannati per i particolari reati previsti dall'art. 4 bis dell'Ordinamento penitenziario come mafia, stupro di gruppo, estorsione, ecc.):
madri (o i padri esercenti la potestà, qualora la madre sia deceduta o altrimenti impossibilitata a dare assistenza alla prole), con prole convivente di età inferiore ai 10 anni (ai fini dell'assistenza alla prole infante);
persone in condizioni di salute particolarmente gravi, tali da richiedere costanti contatti con i presidi sanitari presenti sul territorio;
persone di età superiore a 60 anni, se inabili anche parzialmente;
persone di età minore di 21 anni, per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia.
Il problema è che una buona parte dei condannati non ha un domicilio idoneo, o perché sono stranieri o comunque persone che vivono ospiti saltuariamente presso terzi oppure presso parenti o mariti/mogli/conviventi che non li rivogliono in casa perché nel frattempo hanno trovato un altro compagno/a oppure per evitare il fastidio od discredito con i vicini perché continuamente (di regola più volte al giorno e spesso la notte) arrivano i carabinieri o la polizia a controllare se sono in casa; talvolta il domicilio può non essere ritenuto idoneo per altri motivi(edificio fatiscente o sovraffollato o posto in luogo difficilmente controllabile oppure per la presenza di altri pregiudicati).
La detenzione domiciliare è la massima misura restrittiva per le donne con figli al di sotto dei tre anni, salvo rari casi (principalmente plurirecidive o colpite da condanne oltre i 4 anni). Inoltre, il provvedimento intitolato “Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori” prevede che le donne incinte e le madri con prole di età inferiore ai 10 anni possano usufruire della detenzione domiciliare dopo aver scontato un terzo della pena, oppure 15 anni nei casi di ergastolo. Il giudice infine può, ove ragionevoli motivi a tutela dello sviluppo psicofisico del minore lo rendano raccomandabile, estendere l'applicazione della norma anche alla madre di prole con età superiore ai dieci anni.
La legge prevede alcune limitazioni alla concedibilità della detenzione domiciliare:
ai detenuti ed agli internati per particolari delitti (quali ad esempio quelli previsti dagli artt. 416-bis e 630 del Codice Penale, dall'art. 74 del D.P.R. n. 309 del 9 ottobre 1990) può essere concessa la detenzione domiciliare solo se collaborano con la giustizia;
ai detenuti ed agli internati per particolari delitti (quali quelli commessi per finalità di terrorismo ed in generale a tutti quelli indicati dall'art. 4bis dell'Ordinamento penitenziario) può essere concessa la detenzione domiciliare solo se si possa oggettivamente escludere la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva e solo dopo che questi elementi sono assodati dopo almeno 30 giorni di carcerazione o, comunque, un quarto della pena riferentesi ai delitti ivi elencati.
L'istanza per essere ammessi al beneficio della detenzione domiciliare deve essere prodotta:
se il soggetto è in libertà, al Pubblico Ministero della Procura della Repubblica che ha disposto la sospensione dell'esecuzione della pena;
se il soggetto è già ristretto (detenuto), al Magistrato di sorveglianza.
In entrambi i casi, l'istanza è trasmessa dal ricevente al Tribunale di sorveglianza, che decide in merito con propria ordinanza, impartendo - in caso di accoglimento - le disposizioni per gli interventi del Centro di Servizio Sociale. Qualora il magistrato di sorveglianza, nel caso di persona detenuta, ravvisi che vi sono tutti gli elementi per la concessione del beneficio e ritenga di voler proporre l'accoglimento dell'istanza al Tribunale di sorveglianza può anticipare provvisoriamente la concessione del beneficio, in attesa della futura concessione definitiva; ovviamente il Tribunale di sorveglianza, a tempo debito, potrà confermare la concessione del beneficio o decidere diversamente.
Il Magistrato di sorveglianza può sospendere la detenzione domiciliare:
quando vengano a cessare i requisiti per poter godere del beneficio;
quando il soggetto ponga in essere comportamenti contrari alla legge o alle prescrizioni, ritenuti incompatibili con la prosecuzione del beneficio;
quando il soggetto viene denunciato per il reato di evasione;
quando il Centro di Servizio Sociale dà notizia al Magistrato di sorveglianza di un nuovo titolo di esecuzione di altra pena detentiva che fa venir meno le condizioni per una prosecuzione provvisoria della misura.
Nei casi previsti, il Magistrato di sorveglianza trasmette gli atti al Tribunale di sorveglianza che decide, con propria ordinanza, circa l'accoglimento o il rigetto della proposta di revoca.
Il tribunale fissa le prescrizioni della misura e può anche prevedere modalità di controllo con mezzi elettronici.
Il detenuto domiciliare non è a carico dell’Amministrazione penitenziaria per il mantenimento, la cura e l’assistenza medica.
L'afflittività di queste misure è data dalle particolari modalità di esecuzione delle misure detentive non carcerarie, modalità che permettono, generalmente, pochi spazi di libertà e un rilevante grado di privazione della libertà personale. Ed è proprio chi pone l'accento su questa caratteristica a ritenere che anche in questo caso non siamo in presenza di vere e proprie alternative alla pena carceraria, ma siamo di fronte a "strumenti di diversificazione non alternativa all'esecuzione delle sanzioni penali", sottolineando il carattere detentivo di queste misure. Tuttavia, la loro esecuzione si svolge in luoghi diversi dagli istituti di pena, ovvero nella propria abitazione o dimora, o in altro luogo indicato dalla legge, come ad esempio in luoghi pubblici di cura, assistenza o accoglienza.
Sicuramente, dà più garanzie dell'affidamento in prova al servizio sociale, dove mancano completamente prescrizioni di tipo contenitivo, ma si considera più afflittiva anche della semilibertà, dove, per parte della giornata, non è previsto nessun controllo sulla persona del condannato.
Gli interventi volti ad espandere il campo di applicazione della detenzione domiciliare sono, per primo, la legge n. 165 del 1998, che ha introdotto la detenzione generica e l'ipotesi surrogatoria del differimento dell'esecuzione della pena. La legge 251/2005 ha invece creato una figura di detenzione specifica per ultrasettantenni. La legge 8 marzo 2001, n. 40, ha introdotto una detenzione domiciliare indirizzata alle condannate madri, mentre la possibilità di applicare una misura alternativa ai soggetti affetti da HIV risale alla legge 231/1999. Infine, la legge n. 199 del 2010 ha disposto, anche se dovrebbe avere carattere temporaneo, l'esecuzione presso il domicilio delle pene detentive fino a 18 mesi. Si contano allora 7 forme differenti di detenzione domiciliare, differenti sotto tutti i punti di vista. L'unico contenuto comune rimane la previsione che impone l'esecuzione della misura presso l'abitazione del condannato o in altro luogo, pubblico o privato, indicato dalla legge.
A differenza della semilibertà, la detenzione domiciliare è effettivamente alternativa alla pena detentiva, poiché appunto elimina del tutto la permanenza in carcere dalle sue modalità di svolgimento. Non è però alternativa alla privazione della libertà personale, poiché il beneficiario della detenzione domiciliare si considera comunque ristretto, anche se in casa sua. Tuttavia, la legge precisa che non si applica il regime penitenziario e che nessun onere grava sull'amministrazione penitenziaria. Il fatto che il condannato viva "a sue spese" e non a spese dello Stato è sicuramente un altro dei motivi per cui il legislatore guarda con tanto favore questa norma. Dunque, si può ritenere che anche la detenzione domiciliare sia una misura alternativa che introduce un regime detentivo ma attenuato, stessa definizione data al regime della semilibertà. Ed è per questo che anch'essa è considerata una modalità alternativa d'esecuzione della pena detentiva. Ma a differenza della semilibertà è carente di contenuti risocializzanti, realizzando piuttosto esigenze di difesa sociale e scopi deflativi. Si differenzia anche dall'altra misura alternativa, l'affidamento in prova al servizio sociale, che è invece un istituto sospensivo, una forma di probation da scontare in libertà. Tuttavia, come l'affidamento in prova, anche la detenzione domiciliare ha il pregio di trattarsi di una misura alternativa avente la finalità di evitare "l'inutile sofferenza del carcere". Si considera, insomma, una misura alternativa intermedia tra il regime di semilibertà da una parte, e l'affidamento in prova o la liberazione condizionale dall'altra, una misura che coniuga «la pretesa punitiva dello Stato con l'esigenza di non sradicare il singolo dal suo ambiente».
Il magistrato di sorveglianza può stabilire che in alcune ore del giorno al condannato sia permesso uscire dall'abitazione, di solito per motivi di lavoro. Tuttavia, questa possibilità è limitata ai soli casi in cui il beneficiario risulti essere assolutamente indigente oppure debba provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita. L'obbligo di permanenza domiciliare è quindi il contenuto precipuo della detenzione domiciliare, e solo raramente e per motivi eccezionali può essere scalfito dal permesso di uscire dall'abitazione.
Il contenuto della detenzione domiciliare è quindi riempito da divieti e obblighi, confermato anche dal rinvio all'art. 284 c.p.p. sugli arresti domiciliari, mentre mancano del tutto le prescrizioni positive. Questa è una riprova della finalità minimamente rieducativa della detenzione domiciliare, nonostante sia una misura alternativa. Se si vuole proprio rintracciare una ratio di prevenzione speciale, anche se negativa, si può solo guardare alla funzione neutralizzante della detenzione domiciliare, che la rende idonea a limitare il rischio di commissione di ulteriori reati.
Dopo l'emanazione del decreto legge 24 novembre 2000, n. 341, convertito in legge 19 gennaio 2001, n.4, il Tribunale di sorveglianza può prevedere nelle modalità di verifica dell'osservanza delle prescrizioni l'utilizzo di strumenti elettronici di controllo, che erano già stati previsti per gli arresti domiciliari. In questo modo, si mira a garantire, oltre all'afflittività della misura, anche l'effettività dei controlli.
La prima versione dell'art. 47-ter ord. pen. era stata redatta come una continuazione degli arresti domiciliari e un coordinamento fra i due istituti. S'introduce un regime attenuato per alcune categorie di soggetti, meritevoli di un'alternativa alla detenzione tradizionale, proprio perché si trovano in determinate situazioni particolari. Per questa ragione, inoltre, le finalità di prevenzione, sia generale che speciale, lasciano il posto a finalità di tipo assistenziale e umanitario.
Le peculiarità delle situazioni, oltre a richiamare la necessità di una tutela dettata da esigenze umanitarie, contribuiscono anche ad allentare le esigenze general-preventive. In pratica, si guardano con meno sospetto questi soggetti, si ritiene meno probabile il rischio di reiterazione dei reati e il pericolo di fuga, perché versano in situazioni problematiche tali da renderli meno pericolosi.
La concessione della detenzione domiciliare ex articolo 47-ter, comma uno, ord. pen., è ammessa per pene, anche residue, fino ai 4 anni di reclusione, oppure per l'intera pena dell'arresto. Si tratta di pene lunghe, che quindi possono essere state inflitte anche per reati di una certa gravità. La finalità umanitaria di questa detenzione domiciliare giustifica pure l'assenza di contenuti risocializzanti. Non sono dettate, infatti, prescrizioni positive, come lo svolgimento di attività risocializzanti, ma soltanto l'obbligo di non uscire dalla propria abitazione. Se d'altronde il fine della misura non è rieducativo, bensì di tutela del rapporto genitori-figli oppure di tutela della salute in particolari situazioni o per le esigenze legate all'età, non si sollevano obiezioni a riguardo.
La misura del placement sous surveillance électronique è stata introdotta in Francia, come sanzione sperimentale, nel 1997 con legge 97-1159 del 19 dicembre 1997, ma per la sua applicazione generalizzata bisogna aspettare l'inizio del ventunesimo secolo.
È la prima volta che una misura d'aménagement viene considerata misura giurisdizionalizzata, nel senso che per la sua applicazione è previsto un procedimento contraddittorio, la decisione del giudice deve essere motivata, ed è possibile proporre appello. Il processo di "giurisdizionalizzazione" verrà poi ampliato alle altre peines aménagées e completato nel 2004, con la loi Perben II, anche se si registra un'inversione di tendenza negli ultimi interventi legislativi.
Inizialmente, la sorveglianza elettronica era prevista nella sola fase dell'esecuzione, come aménagement de peine, avente la finalità di fornire una migliore prevenzione nella lotta alla recidiva e di contribuire alla riduzione del sovraffollamento nelle carceri. Infatti, uno dei motivi del successo del PSES, acronimo con cui è spesso abbreviato, è che permette di controllare l'individuo al momento dell'uscita dal carcere, e allo stesso tempo gli permette di reinserirsi, di riabituarsi a svolgere le attività del quotidiano. In questo modo, si evitano les sorties sèches, il passaggio troppo brusco dallo stato detentivo alla libertà, anche perché alcuni studi dimostrano che una progressione nel recupero della libertà influenza al ribasso il tasso di recidiva.
Più tardi, viene data anche al giudice della cognizione la possibilità di disporre la sorveglianza elettronica, ab initio dunque. In questo modo, la sua finalità si trasforma nella lotta alle pene brevi, permettendo di ridurre gli effetti desocializzanti del carcere quando la pena detentiva non si dimostri adeguata alla capacità criminale del condannato. Inoltre, la surveillance électronique può essere concessa prima di concedere la liberazione condizionale, come misura probatoria e preliminare al secondo beneficio.
Il placement sous surveillance électronique viene considerato una modalità di esecuzione della pena detentiva, un regime detentivo attenuato, che è la definizione comune a tutte le misure d'aménagement.
Il PSES comporta l'interdizione di non assentarsi dal proprio domicilio o da altro luogo stabilito dal giudice, al di fuori dagli orari prestabiliti, come recita l'art. 132-26-2 del codice penale francese. Si tratta dunque di un'ipotesi di detenzione domiciliare, caratterizzata dall'obbligo di permanenza in casa, piuttosto che in istituto di pena. A livello comparatistico, è interessante constatare come questa misura sia stata pensata e introdotta dal legislatore francese come indissolubilmente legata ai mezzi elettronici di controllo. Non è concepita come una detenzione domiciliare, che poi può svolgersi con modalità all'avanguardia come il cosiddetto "braccialetto elettronico", ma è nata proprio come uno strumento di controllo tramite l'utilizzo della tecnologia. La concessione della surveillance électronique comporta l'obbligo d'indossare il dispositivo elettronico che permette il controllo a distanza del soggetto. Non si concepisce l'obbligo di non allontanarsi dall'abitazione senza l'obbligo di essere sottoposti al controllo elettronico. La misura può essere concessa dal giudice della cognizione oppure dal Jap, il giudice dell'applicazione delle pene, e può riguardare pene nel massimo fino a due anni, anche considerate come parte residua di una pena maggiore. Il limite è di un anno se la persona si trova in stato di recidiva legale, peraltro è sufficiente che si tratti di recidiva semplice. Il limite di pena può sembrare breve in confronto al nostro, eppure la dottrina francese lo considera anche troppo lungo se viene messo in relazione con l'elevata afflittività che connota il regime domiciliare. La sorveglianza elettronica è vista infatti come una misura molto restrittiva, contraignante. Non a caso, la dottrina francese utilizza frequentemente locuzioni che sottolineano questo particolare aspetto: infatti, il beneficiario viene definito il "guardiano di se stesso", che si tiene da solo dietro le sbarre, mentre la misura è definita "la prigione in casa propria" o il "carcere a domicilio".
Le statistiche dimostrano che dopo alcuni mesi, le persone sottoposte a controllo elettronico possono manifestare insofferenza verso i pesanti obblighi loro imposti. Tuttavia, per quanto liberticida sia, si dimostra pur sempre più umana della pena detentiva. Le caratteristiche della sorveglianza elettronica ci spiegano perché si subordina la sua concessione alla prestazione del consenso da parte del condannato, peraltro in presenza del suo avvocato o comunque di un avvocato d'ufficio. La particolare afflittività della surveillance électronique è dimostrata anche dal fatto che il beneficiario viene considerato effettivamente in stato detentivo, tanto che viene iscritto nel registro dei detenuti dello stabilimento penitenziario che dipende dal centro della sorveglianza.
L'obbligo di restare nella propria abitazione, o in altro luogo stabilito dal giudice, non è assoluto. Si è già visto infatti come la concessione della misura sia subordinata ad una delle condizioni previste dalla legge e uguali anche per la concessione della semi-liberté: motivi professionali, d'istruzione oppure familiari. La possibilità di svolgere, anzi la necessità di svolgere, una di queste attività si spiega con la concezione più elastica dell'obbligo di permanenza domiciliare. La legge stessa si esprime dicendo che l'interessato ha l'obbligo di non allontanarsi al di fuori degli orari fissati dal giudice. Questa flessibilità permette quindi di mantenere effettivamente i contatti con l'ambiente esterno, e soprattutto di continuare a lavorare, possibilità che a sua volta consente di mantenersi economicamente e riduce le probabilità di cadere nuovamente nel reato. Anche i motivi familiari ne risultano avvantaggiati: in Francia mancano del tutto le misure a favore delle condannate madri, nessun beneficio è previsto appositamente per la tutela dei diritti dell'infanzia e del rapporto tra genitori e figli. La flessibilità accordata al regime domiciliare permette alle beneficiarie madri, o anche padri, di organizzare gli orari in cui poter uscire dal domicilio in base alle esigenze della prole, ad esempio per accompagnare i bambini a scuola o a fare altre attività. In questo modo, la partecipazione del genitore alla crescita del figlio è garantita in maniera più effettiva, in confronto alla sola possibilità di restare a casa con i propri figli.
Le concrete modalità di esecuzione della surveillance électronique sono rimesse alla competenza del Jap, sia che si tratti di pena applicata ab initio sia che si consideri aménagement di pena. Il giudice si ritrova ad avere un indiscutibile potere discrezionale, molto più ampio che da noi. Tuttavia, senza questa discrezionalità non si potrebbero tenere in considerazione proprio quelle esigenze reali che la legge non può conoscere in astratto.
Il "braccialetto elettronico" consente di monitorare gli spostamenti del condannato, non solo quando si allontana dall'abitazione fuori dagli orari stabiliti dal giudice, ma anche ad esempio se accede a luoghi o località che gli sono interdetti. La concreta possibilità di controllare il rispetto delle prescrizioni e degli obblighi imposti al condannato contorna il placement sous surveillance électronique di un'aurea di effettività che manca alla nostra detenzione domiciliare. Se è proprio l'elettronica a garantire l'effettività di questa misura, la possibilità di svolgere delle attività ne garantisce la finalità risocializzante e non soltanto meramente non desocializzante.
Il mancato rispetto delle modalità di esecuzione della misura o di altre condizioni particolari, l'intervento di una nuova condanna, oppure il rifiuto del condannato di una modifica necessaria delle modalità esecutive possono esporre il sorvegliato alla revoca del PSES, con conseguente ripristino della pena detentiva. Anche la richiesta da parte del condannato può portare alla cessazione della misura.
Il delitto di evasione viene, inoltre, arricchito di un'ulteriore condotta penalmente rilevante: oltre al mancato rientro nella propria abitazione, commette evasione chi, in qualche modo, manomette il dispositivo elettronico che permette di controllare a distanza gli spostamenti del condannato.
Ciò che colpisce nello studio del placement sous surveillance électronique, ma lo stesso discorso si può estendere anche alla semi-liberté, è la semplicità della sua disciplina. Le sole condizioni d'ammissibilità riguardano i limiti di pena, uguali in entrambe le misure. Il contenuto della misura è arricchito da alcune attività da svolgere o comunque motivi che giustifichino la sua concessione; d'altronde, oltre ai motivi familiari o professionali, di studio o di salute, non è necessario prevedere altro. Non sono previste esclusioni né soggettive né basate sul titolo di reato, per i recidivi è solo previsto un limite di pena inferiore. Non sono previste ipotesi diverse all'interno della stessa misura, anche perché una differente finalità della sanzione è diretta conseguenza della scelta in concreto dell'attività da svolgere. In altri termini, non è necessario prevedere una forma diversa di sorveglianza elettronica a seconda della ratio con la quale è introdotta, perché sarà il motivo che giustifica la sua concessione a individuare, di volta in volta, il fine che la misura intende perseguire. Perciò, una peine aménagé avrà una finalità più propriamente risocializzante quando è concessa per svolgere un'attività professionale, mentre sarà più propriamente assistenziale quando è concessa ad una condannata madre al fine di accudire suo figlio. Le modalità con cui la pena viene eseguita dipendono invece dalla pericolosità sociale del soggetto, e forse anche dalle sue concrete possibilità. Ed è proprio la semplicità normativa che amplia il potere discrezionale concesso al giudice, perché è soltanto il giudice che può adattare la sanzione alle situazioni concrete. Sicuramente, il sistema delle alternative alla pena, in Francia, non raggiunge gli elevati gradi di tutela che in Italia sono invece accordati ad alcune categorie di soggetti deboli. La tutela dell'infanzia, ad esempio, o il diritto alla salute, non vengono protetti come nel nostro ordinamento. Tuttavia, ne guadagnano in coerenza e razionalità della disciplina, e soprattutto riducono le disparità di trattamento che sono invece il principale rischio di una normativa dettagliata e costruita "per stratificazioni".
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FAI VOLARE LA FANTASIA
NON FARTI RUBARE IL TEMPO
I TUOI SOGNI DIVENTANO REALTA'
OGNI DESIDERIO SARA' REALIZZATO
IL TUO FUTURO E' ADESSO .
MUNDIMAGO
http://www.mundimago.org/
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