LA SCENEGGIATA NAPOLETANA



La sceneggiata napoletana è un genere di rappresentazione popolare, che alterna il canto con la recitazione e il melologo drammatico, nato e sviluppatosi a Napoli particolarmente tra gli anni '20 e gli anni '40 del Novecento.

La sceneggiata, genere teatrale-musicale popolare napoletano, è una forma di rappresentazione teatrale economica venuta alla luce nel primo dopoguerra, subito dopo la disfatta di Caporetto, quando lo Stato Italiano disgustato dagli spettacoli triviali e dalle scenette a doppio senso impose la censura e forti tasse agli spettacoli di varietà. All’epoca il Regime non solo non vedeva di buon occhio le piccole compagnie girovaghe ma desiderava soprattutto opporsi all’improvvisazione, cioè a quei copioni improvvisati a cui poco interessava il teatro e la prosa, ma concepivano lo spettacolo solo come pura occasione di svago e di divertimento.
La sceneggiata fiorì dunque nel 1918 quando a Napoli “scoppiò la pace”, scrive Sergio Lori, e inizialmente nel Nord Italia essa fu intesa erroneamente come la “sceneggiatura di un film”, ossia il copione scritto di una pellicola filmica che deve essere realizzata. La sceneggiata invece “è una canzone da recitare, è la sceneggiatura dei versi di una canzone” di matrice popolare ed è proprio questa suddetta canzone, di un successo partenopeo, che dà il titolo allo spettacolo. Essa, composta da tre atti, dà luogo ad una recitazione drammatica.

La prima “opera sceneggiata” fu allestita dalla compagnia di G. D’Alessio, la quale rappresentò l’opera Pupatella, tratta dall’omonima canzone di Libero Bovio.

La classica sceneggiata napoletana unisce in un'unica rappresentazione, come avviene nei varietà, i monologhi, il canto, la musica, il ballo e la recitazione. I motivi principali sono: l’amore, la passione, la gelosia, i valori ancestrali, l’onore, il tradimento, l’adulterio, mamme morenti, il rapporto viscerale madre-figlio, giovani nullafacenti e dissennati, la vendetta, il codice d’onore, la lotta tra il buono e “ ‘o malamente”, etc.
Attorno alla canzone drammatica viene dunque realizzato un testo teatrale in prosa avente come sfondo una trama sentimentale con il conseguente tradimento. I componimenti si ispirano dunque alla quotidianità della vita popolare e le vicende si svolgono nella povera realtà sociale dei quartieri e dei vicoli di Napoli e negli ambienti della malavita. Infatti il teatro della sceneggiata diventa un “teatro d’onore” che rispecchia tutti i dettami più sacri del codice camorristico.
Non è un caso che all’interno della sceneggiata configurano sempre tre personaggi principali che costituiscono una triangolazione isso (lui, detto anche “tenore”, è l’eroe positivo), essa (lei, è l’eroina ed è chiamata anche “prima donna di canto”) e ‘o malamente (il malavitoso, l’antagonista mascalzone cattivo).
Le parti che concorrono da supporto sono quelle affidate invece ai personaggi secondari che per l’appunto fungono da spalla, e sono: ‘a mamma (la seconda donna), portatrice di valori positivi poiché simboleggia il focolare domestico; ‘o nennillo (il fanciullo nato dalla coppia protagonista) e infine ‘o comico e ‘a comica , alle quali è affidato il repertorio comico.
La donna se non veste il ruolo della mamma è vista in maniera negativa, è una moglie fedifraga, la quale disonorando il proprio uomo lo costringe ad essere un assassino uccidendola, affinché questi abbia salvo il proprio onore, dunque ella è portatrice di valori immorali pronta a tradire il valore sacro della famiglia.
La platea ha una forte incidenza sulla scena, essa partecipa attivamente alla rappresentazione mostrando la sua adesione o il suo dissenso alla vicenda rappresentata, tanto è vero che gli attori-autori scrivevano trame tenendo ben presente i gusti del pubblico. Molte volte infatti gli spettatori rispecchiandosi nei personaggi non erano d’accordo sul finale della vicenda, allora originavano animate discussioni dove il tutto finiva con tremende risse verbali e fisiche. Lo spettatore imponeva che nella lotta tra il buono e il cattivo, tra il male e il bene a trionfare fosse sempre il buono, con il quale egli perennemente si identificava.



La sceneggiata napoletana fu molto rappresentata anche a New York, tra gli emigranti italiani di Little Italy, in specie dalla compagnia Maggio-Coruzzolo-Ciaramella. Da ricordare anche la compagnia Marchetello-Diaz, quella di Farfariello, di Ria Rosa e soprattutto quella della regina degli emigranti Gilda Mignonette.

Il genere andò via via perdendo il suo impatto sul pubblico e cadde in disuso, salvo poi una piccola ripresa negli anni '70.

La sceneggiata napoletana passa dal teatro al cinema, con periodi di quasi oblio durante gli anni ’60, e una ripresa negli anni ’70 con Mario Merola, anche se la produzione non si interrompe mai. Il successo della sceneggiata coincidente con la comparsa di Merola come protagonista non credo sia casuale: Merola è il guappo, impersona la guapperia, per la sua storia personale di figlio di ciabattino che arriva alla fama negli Steiz, di uomo “dei quartieri” che non si dimentica della sua gente, che continua a giocare l’ambo al lotto per trovare la ciorta, per avere fortuna.

Per un napoletano la sceneggiata rappresenta la sua storia, una giustificazione, una consolazione, la rivendicazione di un’identità che non si può condannare o a cui si può rinunciare. La sceneggiata nasce in un periodo, l’inizio del novecento, in cui la terra partenopea è terra di nessuno, in cui nemmeno la Borsa merci agisce per stabilire i prezzi dei prodotti ortofrutticoli - unica risorsa o quasi -, in cui la guerra ha acuito la povertà ma nessuna istituzione interviene se non la camorra, in cui lo stato c’ è per legiferare ma non assicurare diritti, dove la famiglia è patriarcale con modalità “guappe” (nell’ o’zappatore si canta “addnocchiete e vasame ‘sti mman”, il padre al figlio, e cioè “inginocchiati e baciami queste mani”). La sceneggiata la  ritrae e ne nasce poi un “circolo vizioso”, se è vero che lo stato di cose è cambiato. Da specchio della realtà, la sceneggiata diventa lo specchio in cui i napoletani si guardano: ne usano il linguaggio, ne imitano gli atteggiamenti dei personaggi, strutturano i loro rapporti con quelle modalità piramidali e sessiste (un’altra sceneggiata canta “essa s’mette scuorn annanz a te, e essa è data a croce ro peccat…” che tradotto è: lei si vergogna dinanzi a te, e a lei è data la condanna di essere peccatrice), ne emulano i sentimenti espressi in modo enfatico.

La sceneggiata si nutre di quella realtà e la realtà di lei, a tratti la finzione sembra contestare lo status quo camorristico, ma esiste proprio grazie a quello. Per capire questa dinamica basta scorrere alcuni titoli delle sceneggiate di Merola: da  e “Napoli.. serenata calibro 9”(1978) e “I contrabbandieri di Santa Lucia” (1979), a “Napoli: la camorra sfida, la città risponde” (1979) e “sgarro alla camorra” (1973). Lo stesso Merola è una figura emblematica: non si è mai capito se fosse un mammasantissima (sinonimo di guappo) e basta, o un camorrista in tutto e per tutto. Lui in America c’è stato e la famiglia Gambino a Nuova York la conosceva bene, ma ha recitato in “Napoli, Palermo, New York il triangolo della camorra” (1981) che non è proprio un’ apologia della criminalità.

Probabilmente, in una terra in cui i Domenico Rea, i Marotta, e oggi le Valeria Parrella e i Saviano hanno usato e usano uno strumento che non arriva a chi deve, ai lazzari felici – “gente ca nun trova cchiù pace c'o volto santo 'mpietto e 'a guerra dint'e mmane” (Pino Daniele, stavolta; i “lazzari felici” sono i napoletani: gente che non trova più pace con un volto santo nel petto e la guerra fra le mani) ; e in cui nessuno insegna che la vita non è soltanto una contraddizione di cui vantarsi, che una città può essere anche soltanto bella e non per questo meno speciale; in cui nessuno ha ancora capito che non bisogna difendersi da nessuno e soprattutto aspettarsi che qualcuno lo faccia per noi; che il padre è padre anche se non ha il volto di Merola e ci dà la summana, la paghetta, per farci apparire per qualcuno che non siamo; che l’inventiva, la fantasia sì, ma se non si inizia ad essere sinceri con se stessi e la propria città non basteranno fuochi d’artificio a un funerale per far sparire gli spari che infatti non si sono fatti attendere; allora la sceneggiata continuerà ad esistere e non come un “film in costume” quale dovrebbe essere, un ritratto del primo novecento, un miseria e nobiltà senza Totò, ma ancora come lo specchio nitido che riflette una tragedia.





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